Una festa che non si toccava, un pallone che non si fermava. E ora che si torna a giocare a Pasqua, resta una domanda sospesa: esiste ancora qualcosa di sacro?
Non è solo questione di calcio. È una faccenda di calendario, di abitudini radicate e piccoli riti familiari. In Italia, La Pasqua e la Serie A si sono sempre guardate con diffidenza, da lontano, come due vicini di casa che si salutano appena e si ignorano per il resto dell’anno.
Eppure, nel 2025, succede qualcosa che da queste parti non accadeva da un bel pezzo: si torna a giocare. E non partite di contorno, ma scontri veri. Bologna-Inter, Milan-Atalanta, Empoli-Venezia. Tutte in programma nella domenica più sacra del calendario.
Una forzatura? Forse. Ma ormai i margini sono stretti e le finestre libere sempre meno. E il pallone, oggi, ha imparato a passare anche dove un tempo si fermava per rispetto.
Non è sempre stato così. Per chi ha qualche anno sulle spalle, il ricordo è ancora vivido: un tempo si giocava anche a Pasqua, eccome. Le partite non si fermavano neppure davanti alle campane a festa, e lo facevano con una naturalezza che oggi sembra impossibile.
Poi, tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta, qualcosa è cambiato. Il calcio ha fatto un passo indietro, forse per rispetto, forse per quieto vivere. Da allora, la domenica di Pasqua è diventata quasi intoccabile. Si anticipava al sabato, si rimandava al lunedì. Ma quella giornata, no. Quella restava blindata.
Un’eccezione che con gli anni è diventata norma, rafforzata da un’idea tutta italiana di “festa comandata”. Ma le regole scritte nella sabbia, si sa, prima o poi si cancellano. Il calcio cambia in continuazione, fra Mondiali per Club e calendari sempre più congestionati, ed è la vita che deve adattarsi ad esso, mai il contrario.
Quando la Chiesa si è ribellata al calcio a Pasqua
La tregua, nei fatti, è durata. Ma non senza qualche strappo. Nel 2004, ad esempio, l’Inter fu costretta a scendere in campo a Perugia proprio nel giorno di Pasqua, per via degli impegni in Coppa Uefa. Finì 2-3, con i nerazzurri a fatica, la curva stranamente tiepida e l’aria intorno più da domenica d’obbligo che da partita vera. Ma a far rumore fu soprattutto il contorno.
Il cardinale Ennio Antonelli, allora presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, non la prese affatto bene: “Il Dio pallone ha il sopravvento su qualsiasi festa religiosa”, dichiarò senza troppi giri di parole. E ancora: “Per un appartenente alla Polizia di Stato di religione cattolica non è possibile santificare la Pasqua con la propria famiglia.”
Stesso copione cinque anni dopo, nel 2009, quando toccò a Reggina e Udinese. Un 0-2 senza grandi sussulti, ma il solo fatto di giocare fu sufficiente a riaccendere il dibattito. Stavolta intervenne Giorgio Constantino, portavoce dei vescovi italiani, per dire che “giocare a Pasqua distrae la gente da quelli che sono i doveri del buon cristiano.”
Insomma, quando il calcio ha provato a farsi spazio tra colombe e uova di cioccolato, spesso qualcuno è salito sul pulpito per ricordare che certe cose non si toccano. Ma il punto è che oggi, più che mai, si gioca lo stesso. Perché il calendario ormai lo decidono le esigenze televisive, gli incastri europei, le sovrapposizioni logistiche. E anche la Pasqua, come tutto il resto, finisce per diventare solo un’altra casella da riempire.