Intervista esclusiva a Giampiero Buonocore, allenatore italotedesco che ha da poco lasciato la Lupo Martini Wolfsburg
Giampiero Buonocore è un allenatore italotedesco classe ’83, con una lunga carriera in Germania. Nell’ultima stagione ha allenato la Lupo Martini Wolfsburg, club con cui ha sfiorato la promozione nel calcio professionistico tedesco. Un’ottima esperienza tecnica e umana, che ha portato mister Buonocore a diversi risultati importanti, come il secondo posto nella regular season della scorsa stagione.
Oggi è tempo di nuove sfide, perché l’evoluzione professionale e umana non si ferma mai. Il desiderio di tornare in Italia per Buonocore c’è, lui che è nato a Wolfsburg, ma ha origini italiane. Una carriera da giocatore iniziata nel settore giovanile del Napoli. Erano anni bui, quelli che poi hanno portato al fallimento nel 2004. E diverse esperienze nella provincia italiana. L’ultimo ingaggio alla Fermana, prima del ritiro a soli 27 anni per i troppi infortuni al ginocchio.
Un nuovo inizio lo ha portato a diventare allenatore e dopo la Lupo Martini, è tempo di cambiamenti, guardando al futuro con ottimismo sviluppando il proprio gioco: ‘Agire e non reagire‘, è questo il suo credo calcistico, che dà l’idea di come giocano le sue squadre. Buonocore ha rilasciato un’intervista esclusiva ai microfoni di SerieANews.com dove ha parlato proprio della sua filosofia di gioco, del suo passato da giocatore e anche del senso d’appartenenza che lo lega alla città di Napoli.
Dopo la tua carriera da giocatore, sei allenatore in Germania da qualche anno. Qual è il tuo stile di gioco?
“Il mio stile di gioco è agire e non reagire, sia quando la squadra ha il pallone, sia in fase di non possesso. Dunque, un pressing più alto possibile per recuperare la palla, costruire il gioco dal basse, arrivare in fase di creazione con controllo per avere più giocatori possibili in fase di finalizzazione. Questo è il mio credo. Si parla di possesso palla, occupazione degli spazi, non subire il gioco dell’avversario. Agire e non reagire in tutte le fasi. Ho lavorato molto in Germania, più sui principi e meno sul sistema. Bisogna facilitare il giocatore in mezzo al campo, perché ogni avversario agisce diversamente. E con questi principi, i calciatori sono facilitati nel trovare una soluzione”.
C’è un allenatore a cui ti ispiri?
“Ce ne sono diversi. Parlando di possesso palla, vediamo la grande evoluzione di Pep Guardiola. Ma ci sono anche nei settori giovanili allenatori poco conosciuti dai quali si può imparare qualcosa. E’ il complessivo che fa un allenatore, ognuno ha un proprio stile. Bisogna essere sempre in evoluzione e, perché no, rubarsi un po’ il mestiere. De Zerbi, Guardiola, giocano un calcio bello. Poi c’è Klopp che sulla fase di pressing agisce alto e mi piace. Ogni allenatore ha un proprio credo, c’è anche quello vecchio stampo come Claudio Ranieri, che ha molta classe e riesce a valorizzare al meglio i propri giocatori. Lo stesso Klopp, quando lo ascolti in conferenza stampa, riesce a prendere la gente. Ci sono sempre delle idee nuove, le noto anche in me dopo 7-8 anni. Chi vuole migliorarsi è sempre sul pezzo e in evoluzione con il lavoro e l’analisi”.
Ti piacerebbe allenare in Italia?
“Sono aperto a questa possibilità. L’anno scorso con la mia squadra (Lupo Martini Wolfsburg, ndr), abbiamo sfiorato la promozione nella Lega Pro in Germania. Avevo anche un altro anno di contratto, ma d’accordo con la società ci siamo separati perché volevo fare il salto di categoria. Ho un obiettivo chiaro, che è quello di lavorare professionalmente il più alto possibile e l’estero è una grande opzione. L’Italia ha un fascino particolare per me, la mia famiglia è qui. Ci sarebbe sicuramente un cambio di cultura sia dentro, sia fuori dal campo. Ma uno si può migliorare sotto tutti i punti di vista, non solo a livello calcistico. Ho giocato in Italia e allenato in Germania e ho sempre cercato inserire nel calcio e nella mentalità le migliori cose di entrambe le culture. L’idea di rientrare è affascinante, stando fuori tanti anni sei un po’ fuori dal sistema. Dodici anni sono tanti, perché non tutti conoscono il tuo lavoro. In Germania le cose funzionano diversamente, ma ho preferito rientrare per stare vicino alla mia famiglia. Aspettiamo la chiamata giusta, anche per raggiungere l’ultimo step che è l’UEFA Pro”.
La gestione degli allenatori un po’ più giovani in Germania è diversa rispetto a quella italiana. Penso a Tedesco, Nagelsmann.
“In Italia non rientra nel sistema istruire un giovane allenatore. Non so se è cambiato il limite di età negli ultimissimi tempi, ma così si perdono delle occasioni. In Germania non esistono limiti, ci sono dei ragazzi che comunque hanno studiato. L’ex calciatore in Italia è avvantaggiato, c’è un sistema di punteggio che si basa anche sulle presenze da giocatore, sulla categoria o addirittura la Nazionale. Poi magari c’è quello da allenatore e in Italia, infine, quello dell’istruzione. Se sei giovane e non hai accumulato molti punti da calciatore, e hai parecchi ex giocatori davanti a te. Non entri, è molto difficile. Però questi ragazzi hanno iniziato dal settore giovanile: Nagelsmann e Tedesco ci hanno lavorato, accumulando già tanti punti. Nagelsmann ha vinto il campionato Under 19 con l’Hoffenheim. Il club gli ha dato fiducia con una squadra quasi retrocessa e lui l’ha salvato. Lì inizia la sua carriera, che è già molto importante, nonostante sia giovane”.
In passato sei stato anche nel settore giovanile del Napoli, cosa conservi di quell’esperienza?
“Io sono nato in Germania e sono venuto a Napoli a quasi 14 anni. Ho fatto la trafila nelle giovanili, ma sono capitato nel periodo dei cambi societari: Ferlaino, Corbelli, Naldi. Era un periodo molto difficile per un ragazzo della mia età. C’erano tantissimi giovani di qualità a Napoli. Conosci tante belle persone, anche al di fuori del contesto calcistico. Io a Napoli sono cresciuto come uomo, a 14 anni sei in fase adolescenziale. Ho fatto fino alla Primavera, avendo la fortuna di fare qualche panchina in Serie B con il professor Franco Scoglio. Dopo decisi di andare in Serie C per farmi le ossa, purtroppo ho smesso a 27 anni. Dopo l’ultimo ingaggio con la Fermana, dove ho subito 5 interventi al ginocchio, era arrivato il punto di cambiare e provare altro. Al calcio non potevo dare più niente. Quando giochi con i dolori non è più il caso. Sono rientrato in Germania e ho iniziato la gavetta da allenatore, dal basso. Oggi ti dico che è stata la strada giusta. Nella vita bisogna staccarsi anche se hai la passione. Alla fine sono rimasto nel calcio, anche se con un’altra funzione”.
Ti sei anche fermato per il bene della tua salute.
“Si gonfiava il ginocchio, 5 interventi erano tanti. Mi accorgevo che fisicamente non potevo dare più niente. Psicologicamente è stata una mazzata dopo l’ultimo infortunio e c’era da prendere una decisione. Potevo giocare altri due o tre anni, ma comunque avrei finito presto la carriera. E dopo cosa fa? Cerchi di guardare avanti da uomo più che da calciatore. La strada giusta era questa, prendermi i patentini, avevo voglia, perché ho imparato tanto dai mister che ho avuto. E poi vedi il calcio diversamente. Con lo studio ti metti in gioco, però non puoi paragonare il calcio di prima a quello di oggi: gli allenamenti, il comportamento degli allenatori anche coi giocatori… La figura del mister è rispettata, poi dipende dalla differenza di età. Può essere visto come un amico o addirittura una figura paterna, anche se questo non è il mio caso perché sono un po’ più giovane. Però essere molto disponibile, capire la persona prima che il calciatore così può rendere al massimo, questo è importante. C’è stata un’evoluzione ed è giusto. Hai a che fare con un’altra generazione, quella degli smartphone. Il ragazzo di oggi con il minimo sforzo vuole raggiungere il massimo, prima eravamo più lavoratori. Perché se non lavoravi, non andavi da nessuna parte”.
Un ragazzo di 17 anni fa una tripletta e i followers aumentano.
“E’ cambiata proprio la generazione. Coi social media sei molto più visibile, quando giocavo io per vedere una partita o cercare partite vecchie era quasi impossibile. Oggi sono registrati anche gli allenamenti, fai una bella azione, fai il video, poi lo pubblichi e diventa virale. Prima lo facevi, non era registrato e nessuno se ne accorgeva (ride, ndr). Questo è stato il cambio, così come per l’allenatore. Non c’era il match analyst che lavora col video. Le squadre giocavano quasi tutte con quattro difensori, quattro centrocampisti e due punte. Erano tutti gli stessi sistemi, adesso ci sono diverse filosofie di gioco. Preparare una partita era più semplice, oggi lavori a 360 gradi sotto ogni aspetto. L’allenatore è diventato manager, è forte quanto il suo staff e dev’essere bravo a creare un clima sereno intorno alla squadra e al club. Quando le cose non vanno e non arrivano i risultati, è il primo responsabile. Un bravo allenatore è colui che, anche nella piccola società, sviluppa il giocatore oltre che il gioco. Se a fine campionato un calciatore fa dei passi in avanti, per una piccola società è molto importante. Se funziona il gioco e migliori il giocatore, arrivano anche i risultati”.
Il tuo legame con la città di Napoli è molto forte. Aver vinto lo Scudetto dev’essere stata una grande gioia per chi vive all’estero.
“Sono tifoso del Napoli, lo seguo, il suo calcio è stato spettacolare. Il Napoli è una forma di aspirazione di gioco, di principi che già mettevo in pratica, ma adesso mi ha dato la conferma. Gioca con quest’ampiezza, con un giocatore che non è il terzino classico come Di Lorenzo che taglia pure in mezzo al campo e può inserirsi in avanti; con l’uomo davanti alla difesa in fase di creazione che è sempre lì a chiudere i triangoli. Il Napoli per me è stata una gioia immensa e ha meritato. La cosa più bella è stata la visibilità, la gente conosce ancor meglio Napoli. Come si conosce meglio? Con le vittorie. E facendo un campionato del genere e così bene in Champions League, ha avuto all’estero una grande valorizzazione. Tra gli esperti prima era conosciuto, però adesso ha iniziato anche chi con il calcio estero ha meno contatto. Ti vengono vicino dicendo ‘Il Napoli, che grande, che bello!’. Il calore della gente durante i festeggiamenti, quell’immagine è arrivata anche all’estero e ha dato ancor più senso d’appartenenza per i napoletani, perché ha fatto vedere il lato bello e pulito della città non solo del calcio. La vittoria del Napoli dopo 33 anni ha portato questo, con grandissima riconoscenza non solo per la squadra, ma anche per il calore che può dare una città solo come Napoli.