L’allenatore ha vuotato il sacco raccontando la sua storia partita dal basso e in dissidio con il parere della famiglia e degli amici
L’Udinese ha già risolto la pratica salvezza. I bianconeri sono saliti a quarantatré punti con la vittoria nel recupero contro la Fiorentina. La formazione friulana al “Franchi” ha giocato un’altra partita convincente chiudendo alla fine con quattro reti. I bianconeri fino a questo momento hanno segnato 53 reti, una in più rispetto alla Juventus.
Il lavoro di Gabriele Cioffi, che ha rilevato la panchina da Luca Gotti, di cui in precedenza era il vice, si sta rivelando efficace. Il 47enne allenatore fiorentino si è raccontato in un’intervista concessa al ‘Corriere dello Sport’. La sua è una storia particolare.
Udinese, Cioffi: “So da dove vengo e non voglio tornarci, Gotti ha accettato la mia intenzione”
La svolta nella vita di Gabriele Cioffi è arrivata a dicembre quando la società friulana ha deciso di esonerare Fabio Gotti. La panchina è stata affidata a lui che del suo predecessore era il secondo. Qualcosa di poco abituale nel calcio ma comunque con alcuni precedenti.
“Quando hanno esonerato Gotti”, ha spiegato l’allenatore dell’Udinese al ‘Corriere dello Sport’, “l’ho chiamato per dirgli che non me lo aspettavo e che avevo intenzione di accettare la proposta che mi era stata fatta. Lui penso abbia capito e mi ha fatto l’in bocca al lupo perché è un gentiluomo. Qualcuno può dire che io gli abbia fatto le scarpe ma è un discorso semplicistico. Sono una persona perbene, lavoro per l’Udinese e non ho mai avuto rapporti diretti con il direttore sportivo o con il presidente”.
Il tecnico fiorentino ha poi raccontato anche il suo passato. Un passato fatto di sacrifici e vissuto in controcorrente, non prendendo in considerazione i consigli provenienti dalla famiglia: “A ventitré anni – ha continuato Cioffi – avevo già patito tre infortuni ai crociati ma nonostante ciò non mi sono arreso. Ero rimasto senza contratto in Serie C e mi dicevano che non sarei tornato più a giocare. Mia madre mi consigliava di studiare mentre mio padre mi diceva di seguirlo nella ditta. Ho fatto di testa mia e contro ogni pronostico sono rimasto per diciassette anni tra i professionisti”.
Ecco allora perché dai suoi ragazzi pretende il massimo: “Voglio che la squadra sputi sangue e che al termine del match non possa rimproverarsi nulla. Sono consapevole da dove vengo e sinceramente non voglio più tornarci”.