Il terzo episodio de “La mia Argentina” è un viaggio nella tradizione culinaria del paese del tango.
Mangiare a Buenos Aires. Se mai dovesse capitarmi di scrivere una guida per visitare la capitale argentina, sono sicura che dedicherei il capitolo più folto alla tradizione culinaria. Non era la prima volta che mi approcciavo al cibo d’oltreoceano. Immaginavo di avere gli strumenti e il palato sufficientemente sviluppati per ciò che mi aspettava.
Ho dovuto ricredermi.
Niente zuppe (d’altronde è estate!) e frugalità. Le abitudini alimentari sono molti simili a quelle degli italiani. Tuttavia ci sono delle interessanti commistioni culturali che sinceramente non mi erano note, che mi hanno colpita e convinta che dovesse essere un tema di conversazione tra me e voi.
Quindi, questo sarà un capitolo diverso del mio viaggio. Lo suddivido in quattro punti per quattro tappe diverse. Poi, se questo itinerario di cinque puntate insieme vi sarà piaciuto, allora v’invito con me e proveremo decisamente più piatti di quelli che queste righe mi permettono di illustrarvi.
LEGGI QUI L’EPISODIO PRECEDENTE >>> Diario dall’Argentina: i 59 stadi di Baires e un pomeriggio col Vélez
Giungo a Buenos Aires con l’assoluta e giustificata presunzione di arrivare dalla città nella quale il know-how che c’è dietro la preparazione della pizza è Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Tra l’altro, ero ancora una studentessa universitaria quando il mio professore di Antropologia partecipava alla stesura del testo da presentare affinché quest’arte fosse riconosciuta come tale. Tuttavia, questa superbia non m’impedisce di scendere all’Olimpo della lievitazione al terreno umano della pizza argentina.
Spoiler: non me ne sono pentita nemmeno un istante. Le ho provate in più posti di Buenos Aires, ma la prima e l’ultima sono state indubbiamente le migliori.
El Imperio de la Pizza è un locale folkloristico e accogliente, tappezzato di tutta la cultura locale: le pareti sono ricoperte di fotografie degli esponenti più importanti d’Argentina, da ballerini di tango a politici a pittori fino ai calciatori. Infatti, è immancabile una zona della pizzeria interamente dedicata a Diego Armando Maradona e Leo Messi con le fotografie delle più emblematiche copertine dei giornali. Campeggia, con giusta ragione, El Gráfico. Il posto è semplice, come un pub da fast food nostrano, ma è così ampio anche nelle vetrate che ti offre uno spaccato del mondo esterno che si muove vicino una delle stazioni centrali, che collega la provincia al centro della città. Il tutto con una scritta a Led verde a mo’ di insegna che ti ricorda che qui “la pizza regna dal 1947”.
Se riuscite a dimenticare i paragoni con le nostre abitudini, chiederete una fugazzeta e al tavolo vi arriverà una porzione di pizza (la pizza si mangia a porzioni e non intera) che vi spingerà, anche se sazi, a chiederne almeno un’altra. La base è quella di una pizza, ma è molto più simile a una focaccia ispirata al nostro sugo alla genovese con un ripieno di mozzarella/formaggio deliziosi. Io, ho chiesto il bis.
Tuttavia, se questa è la tradizione, casa è stata Pizzería Angelín. Angelín è un forno in un locale molto spartano, ai nostri occhi una bottega comune, che ti chiarisce all’ingresso di aver inventato nel 1938 la pizza canchera. La canchera è un orgoglio perché è la madre di tutta la tradizione. E sapete una cosa? Io l’avevo già mangiata prima, perché è fatta secondo gli stessi dogmi della nostra pizza marinara. Ciò che cambia negli ingredienti è che la salsa è speziata a tal punto da assumere un sapore dolciastro.
Non soffermiamoci sulla massa, bensì sul sapore: vi delizierà.
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Se la pizza è tradizione, las empanadas sono consuetudine. Si comprano praticamente dovunque e sono comuni in tavola come lo è per noi il pane. Sono un’alternativa costante al doversi preparare da mangiare o il complemento perfetto per accompagnare il pranzo o la cena. Le avevo già assaggiate in Cile e le avevo trovate agrodolci e piuttosto speziate, mentre in Argentina sono del tutto diverse. Pur uguali nella consistenza della massa esterna, all’interno sono farcite principalmente in tre modi: carne con un risultato vicino al nostro sugo bolognese con piselli e salsa di pomodoro; pollo; verdure con formaggio. Quelle di pollo, se fossero un pilota di F1, stapperebbero lo champagne e ricoprirebbero le dirette avversarie fino a non poterne distinguere i lineamenti! Sono incredibili, grazie alla coltivazione e all’allevamento molto più tradizionale e meno “ormonale” di quello europeo dei polli. E, infatti, parlando di empanadas, colgo l’occasione per dire che, pur non essendo la miglior mangiatrice di carne e pollo al mondo, ne sono rimasta estasiata.
E qui arriva la parte più interessante.
Ho imparato fin da piccola che del maiale si mangia tutto, ma confesso che non ero assolutamente pronta all’idea che dall’altra parte del mondo (eppure avrei dovuto immaginarlo) valesse lo stesso per la mucca. Dalla testa alle zampe, tutto si cucina. Durante lo stesso corso di Antropologia di cui vi scrivevo all’inizio, ho appreso che l’essere umano tende a non mangiare tutto ciò che è troppo vicino o troppo lontano da sé. Per intenderci: noi italiani non mangeremmo mai la carne di un cane ma nemmeno quella di un rospo. E come metterla con la mucca? Un mondo intermedio. Per cui scelgo di provare, ma senza sapere cosa stia assaggiando.
In terrazza, la stessa dove ho visto per la prima volta la maglia di Diego Armando Maradona firmata per me, mi preparano un asado. Non c’è alcun taglio di carne che possa non piacervi se provate a cucinarlo alla loro maniera. Fare un asado è come accordarsi per uscire a mangiare una pizza, per noi. Un atto sociale che apprezzo particolarmente perché è viscerale il rapporto con il cibo: si mangia anche in piedi e con le mani. Si torna un po’ agli inizi dell’uomo: alla faccia del gourmet!
Quindi, vedo queste salsicce decisamente più scure cuocere sul fuoco ardente e, quando sono servite, vengono incise al centro ed ecco la sorpresa: l’interno della “salsiccia” è morbido, è di una consistenza vicina a quella delle lenticchie. Prima di mangiarla, si farcisce ulteriormente con la salsa criolla. Si tratta del condimento base per la carne da asado: pomodori, peperoni, cipolla bianca, olio, sale, origano e un tocco di aceto balsamico.
La mangio tutta. Il sapore non è paragonabile a nessuno di quelli a noi noti: vicino alla carne, ma non troppo, ed è una consistenza nuova.
Mi lecco i baffi, poi scopro di aver mangiato le interiora della mucca.
Vi vedo che storcete la bocca, non fatelo! Basti pensare che è un cibo così povero di grassi e ricco di proteine che viene preparato per i bambini e gli anziani, per fare il pieno di energia.
Ci sarebbe tanto da raccontarvi tra milanesas e gelati, ma chiudo questo terzultimo capitolo con due scoperte inattese. In occasione di un tagliere di salumi, altrettanto consuetudinario con il nome di picada, ho ritrovato un salame morbido chiaro come la mortadella e infatti si trova anche con tracce di pistacchio. É noto come “Leberwurst” ed è tipico tedesco, arrivato nella cucina argentina proprio in seguito all’immigrazione del secolo scorso. Ritrovare la Germania in una terra molto vicina alla tradizione italiana e spagnola è stata una grande novità, così come scoprire che la cucina argentina ha molte tracce della tradizione araba. Insalate e salse così come spezie, soprattutto in caso di asado o tagliere, sono un must e simboleggiano l’accoglienza verso l’invitato, proprio alla stregua del significato che ha nella tradizione arabo-giudaica la preparazione di queste pietanze.
Una prova ulteriore di quanto Buenos Aires e l’Argentina siano state terra di accoglienza senza perdere però le proprie profonde radici. Per questo però vi rimando al nostro prossimo appuntamento, sperando nel frattempo di potervi immaginare digitando su Google: “Perché gli argentini mangiano tutto della mucca?”
Hasta la próxima!
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