Il secondo episodio de “La mia Argentina” è ambientato all’Estadio Amalfitani nel giorno di Vélez-San Lorenzo.
Con 59 stadi di cui 36 che superano la capienza dei 10.000 spettatori, Buenos Aires è la città e capitale del mondo che ne ha di più di tutti. Immaginate Roma e cercate di pensare a una domenica pomeriggio con circa 30 stadi e quindi 60 tifoserie in giro per una partita di calcio. In metropoli dov’è difficile stabilire quale sia il derby, perché mancano numericamente le avversarie o il dislivello è troppo evidente, in Argentina il clásico è addirittura tra quartieri, tra squadre della zona metropolitana, del centro e quelli delle province. Un groviglio di rivalità che diventano personali e non soltanto ideali. Il barrio si vive e di riflesso anche la squadra, la cui vittoria significa la supremazia su un indefinito numero di nemiche.
Tanti stadi si scorgono mentre sei in auto o a piedi tanto che diventa molto più semplice orientarsi riferendosi al posizionamento del Monumental piuttosto che del Nuevo Gasómetro che affidandosi ai nomi delle avenidas. Se sei straniero, Buenos Aires t’ingloba. E se decidessi ad esempio di seguire tutto il flusso dei km di lunghezza dell’Avenida Corrientes a occhi chiusi, inizieresti camminando in uno scenario borghese e termineresti aprendo gli occhi ritrovandoti al centro del caos cittadino. È così vero che un indirizzo è decisamente più dettagliato di quello italiano: non bastano una via e il nome della città. Serve il nome del distretto all’interno del quartiere. Insomma, affidiamoci agli stadi! Anche perché ogni squadra ha un’identità così personalizzata che non correresti mai il rischio di confonderti.
Io ho scelto di appartenere alla gente di Liniers, quelli del Vélez Sarsfield. Una scelta piuttosto poco comune, considerata la vastità di grandi squadre che Buenos Aires e l’Argentina propongono. Il problema è che scegliere non è facile. Per chi come noi non è argentino e non è nato in uno dei quartieri della città o della provincia è difficile scindere l’appartenenza dall’ammirazione. Ti verrebbe voglia di essere parte della barra di qualsiasi squadra, perché è emozione e adrenalina pura. Una macchina organizzativa che cammina in maniera del tutto indipendente da ciò che accade nel mondo circostante eppure è profondamente legata agli scenari politici.
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L’aspetto che senza dubbio ammiro di più è il potere elettivo dei tifosi. I supporter di una squadra possono esserne soci, ciò vuol dire che accedono alle strutture di proprietà del club che, credetemi, sono all’avanguardia rispetto a qualsiasi delle nostrane. Probabilmente soltanto in Premier League possiamo vedere qualcosa di simile. D’altronde i soci pagano una tassa annuale, che dà loro il potere più grande: decidono chi sarà il presidente e conseguente giunta direttiva ogni 3 anni.
Il club è cosa loro. Ora si capisce perché?
Il mio istinto tricolore è stato ciò che mi ha smossa anni fa e mi ha portato a scegliere di essere una del Fortín. Il club è di fondazione italiana e lo mostra con orgoglio attraverso degli inserti che ne ricordano la bandiera in tutte le sue divise ufficiali. Inoltre, uno dei miei idoli calcistici è El Tigre Gareca, simbolo del Vélez, e infine proprio questa apparentemente modesta squadra argentina è finita sul tetto del mondo nel 1994, battendo l’irrefrenabile Milan di Capello. ‘El primer en ser un grande’ (il primo club ad essere grande, ndr), recita l’etichetta della maglia ufficiale di ogni stagione. Innamorarsi è stato inevitabile.
Non ho mai nascosto la mia fede calcistica argentina, seppure poco popolare per una “forestiera” come me, e ciò pare avermi aiutata a stringere un rapporto molto cordiale e di profonda amicizia con i dirigenti del club. D’altronde, abbiamo lo stesso sangue del Sud dell’Italia. Così, sono stata invitata a visitarne la struttura e ad assistere al match contro il San Lorenzo, sfida di cartello.
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Quando arrivi nel barrio di Liniers, se parti dalla Capitale come me, ti rendi conto che cambia lo scenario che hai davanti agli occhi. É una zona meno trafficata e più operaia. Si direbbe semplice rispetto agli scorci artistici del centro ma ha delle casette e dei giardini che non faticheremmo ad accostare alla Germania. Ma di questo parleremo più avanti…
Ho avuto il privilegio di conoscere molti stadi in tante città d’Italia, d’Europa e oltreoceano eppure, mentre scrivo, posso perfettamente sentire l’adrenalina che ho avvertito al Fortín. Non è lo stadio più grande d’Argentina, ma per molti ne è il teatro. Ha una struttura che favorisce la visuale e lo spettacolo, a mo’ di anfiteatro, e infatti spesso è scelto anche per eventi non sportivi. Mi sono guardata intorno, prima di entrare, e ho avuto difficoltà a scorgere persone che indossassero una maglia di un colore diverso dal bianco, dall’azzurro o dal tricolore italiano. Tutti, ma davvero tutti, avevano la maglia del Vélez più o meno nuova. Poi l’ingresso all’Estadio Amalfitani: un sogno.
Entri e davanti a te c’è la statua di Carlos Bianchi e quella di José Luis Chilavert, oltre a quella del dirigente storico da cui prende il nome l’impianto. Gli idoli massimi ti accolgono e insieme a loro tutte le coppe/trofei che il Vélez ha vinto dal 1 gennaio del 1910 in avanti. Un’emozione scorgere i profili di quelle coppe, di cui alcune stipate anche all’interno di una stanzetta destinata ai dirigenti od ospiti del club durante l’intervallo.
Sali una scaletta, passando accanto alle palestre che usano i calciatori per fare riscaldamento prima di entrare in campo insieme ad altre strutture (si praticano tanti sport, non solo il calcio!, ed ecco spalancarsi il campo verde. Immenso.
Il mio sguardo è rapito dal palco di tifosi di fronte al mio e ai lati: è alto, altissimo. Ora capisco perché ricordi un anfiteatro. Tutto è blu chiaro e ho il privilegio, del quale sarò eternamente grata, di poter addirittura calcare il terreno di gioco. Rubo la prospettiva ai calciatori e mi sembra meraviglioso. Ma io sono una di loro, una tifosa che vuole godersi lo spettacolo. 90’ di cori ininterrotti che mi ricordano un’allegria che il calcio nostrano ha un po’ perso. Il calcio è una festa, al di là della competizione, alla quale si partecipa con felicità: andreste mai al compleanno di qualcuno col muso lungo? Mi lascio trascinare e imparo cori che prima non avevo mai ascoltato. Apprendo che sono una di Liniers e lo devo cantare con orgoglio. Nell’intervallo ci si concede qualche minuto di stop per bere un caffè o mangiare un tramezzino, poi si riprende senza sosta.
Quel giorno il Vélez ha vinto 2-1 e la gente ha continuato a saltare fin quando si è fatto troppo sera per restare all’interno dell’Amalfitani.
Io ci avrei dormito.
Ho incontrato i dirigenti della società, estremamente entusiasti nel poter rappresentare una società dal sangue italiano e di un’umiltà disarmante: i tifosi ci dialogavano e li salutavano come vecchi amici. Nessuna distanza, ma grande rispetto.
Sono uscita a malincuore e ho trascorso la serata in splendida compagnia a bere qualcosa.
Ogni tanto ci ripenso e mi domando se, quando tornerò, ritroverò sugli spalti il padre di Darío. Non andava allo stadio da anni, un giorno l’ha fatto e il Vélez ha vinto: ora non può più negarsi, è l’amuleto dei dirigenti e dei tifosi. Non sia mai sfidare la sorte…
Scaramanzia, la chiamano. E allora ancora una volta mi sento a casa.
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