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Serie A

Rodriguez, la Serie A nel destino: “Mio figlio si chiama Daniele per Pradè…”

Scritto da
Mirko Calemme

Il tecnico Ricardo Rodriguez racconta la sua esperienza in Giappone e svela un retroscena sul suo legame con l’Italia

Ricardo Rodriguez è uno degli allenatori giramondo che ha esportato la Spagna negli ultimi anni. Dopo esperienze in Arabia Saudita, Messico e Tailandia, l’ex ds del Malaga è uno dei tecnici più quotati in Giappone. Quest’anno ha preso le redini dell’Urawa Red Diamonds dopo tre stagioni al Tokushima Vortis, col quale è riuscito a vincere la J2 League, conquistando il primo titolo nella storia del club. Lo spagnolo ammette di essere felice e concentrato sul suo percorso giapponese, ma non nega di immaginare un futuro nella nostra Serie A, alla quale si sente legato anche per ragioni personali: “Mio figlio si chiama Daniele… per Pradè“.

Come ha vissuto questa stagione con l’Urawa?
“Bene, sono contento dell’annata che stiamo disputando. Abbiamo ancora da giocarci una semifinale della Coppa dell’Imperatore, che ci offre la possibilità di vincere un titolo e partecipare alla prossima Champions asiatica”.

Come ha adattato le sue idee al calcio giapponese?
“È stato un processo lungo, iniziato al Tokushima Vortis. Loro partivano da un 5-3-2 e siamo riusciti a crescere con un calcio più propositivo, raggiungendo ottimi risultati, grazie ai quali mi sono guadagnato la chiamata dell’Urawa. Anche qui ho cercato di dare un’identità diversa, con un calcio offensivo basato sul gioco di posizione”.

Come giocano, invece, i suoi rivali?
“C’è chi ci attende in difesa, cercando il contropiede, e chi pressa alto. Noi cerchiamo di adattarci, con l’idea di giocare il maggior tempo possibile nell’area rivale, disponendoci spesso con una piramide rovesciata, un 2-3-5 che è molto difficile da interpretare per l’avversario. Il gioco di posizione per me è la ricerca costante dell’uomo e dello spazio libero, e ci si arriva attraverso un lavoro lungo sui calciatori”.

In Giappone la passione per il calcio è viva come ai tempi del cartone animato ‘Holly e Benji’?

“Sì, ovviamente la pandemia ha spento l’entusiasmo per qualche mese, ma per fortuna gli stadi si stanno gradualmente riempiendo di nuovo. Lo sport numero uno è ancora il baseball, ma il calcio riveste un ruolo importantisismo nella società. Tra i bambini è il più seguito e la Nazionale ha l’obiettivo di entrare tra le prime otto del mondo, prima o poi, seguendo il principio del ‘kaizen’, del miglioramento costante”.

Una battuta sul Barça: in Arabia ha lavorato con Rijkaard, che mise le basi per l’epoca azulgrana migliore di ogni tempo. Come vede Xavi sulla sua panchina?
“La cosa più importante è che abbia le idee chiare. Ha una filosofia definita, conosce il club come le sue tasche, e avrà bisogno solo di tempo e fiducia per adattare i calciatori ai suoi principi. Ha tutto per riportare il Barcellona in alto”.

Passiamo al calcio italiano: lo segue? le piace?
“Da sempre. Mi sono appassionato alla Serie A quando arrivò lì Martin Vazquez. Ero suo fan e seguivo tutte le partite del Torino. È un paese che adoro, una cultura che mi piace tanto, appena posso ci vado in vacanza e ho anche studiato un po’ la sua lingua, visto che quando ero preparatore fisico ho seguito diversi corsi lì. Inoltre, mi piace tanto l’evoluzione della sua filosofia calcistica

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Ricardo Rodriguez (foto Urawa)

Ricardo Rodriguez: “Il calcio italiano sta evolvendo, e si nota”

Qualcosa sta cambiando, è vero.

“Non è più solo catenaccio. Negli ultimi anni allenatori come Sarri, Conte, Gasperini e De Zerbi, hanno mostrato un calcio innovativo, propositivo. Il lavoro della Nazionale di Mancini dimostra la crescita del movimento. Durante un congresso ne parlai con uno degli assistenti di Rafa Benitez, Paco De Miguel, e mi raccontò che le squadre di Serie A riescono a cambiare sistema di gioco quattro volte in una partita. È una grande ricchezza tattica, un aspetto che mi piace tantissimo. Ora penso all’Urawa e voglio trionfare qui, ma spero in futuro di riuscire a fare un’esperienza nel Bel Paese. Sarebbe bello anche a livello personale: ho un figlio che si chiama Daniele…”.

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Davvero? Come mai?
“La storia è particolare. All’inizio ci dissero che aspettavamo una bambina, e così scegliemmo il nome Daniela, che è anche spagnolo. In seguito si scoprì che l’ecografia non era corretta, e che si trattava di un maschietto. All’epoca ero direttore sportivo del Malaga, così un pomeriggio mia moglie mi ascoltò parlare al telefono con Daniele Pradè, che lavorava alla Roma, e mi disse: ‘Perché il bambino non lo chiamiamo Daniele?’ Le dissi che mi piaceva, e decidemmo così”.

Fantastico. In Italia proverebbe a seguire le orme dei vari Sarri, De Zerbi, Dionisi: un calcio propositivo con gioco posizionale, immagino.
“Sì, la mia identità ormai è quella. Sto sviluppando quest’idea calcistica da cinque, sei anni, e continuerò a farlo”.

L’ex del Napoli, alla Juventus, ha fatto fatica ad applicare i suoi principi. Come si applica quel tipo di filosofia ai top club?
“Bisogna valorizzare il potenziale del calciatore top e circondarlo di compagni funzionali e complementari. Nel mio gioco di posizione, mi piace che spesso i calciatori se le scambino: l’importante è che restino sempre occupate. Certi meccanismi devono adattarsi al contesto e alle caratteristiche del calciatore, a volte si confondono sistema e idea di gioco…”

E il calcio, invece, non è riassumibile nei numeri di uno schema.
“Esatto. L’arte dell’allenatore è trovare la chimica per far sì che la squadra lavori in maniera coordinata, come un orologio”.

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