Se l’Italia intera fosse come la Nazionale di Mancini

L’Europeo sta lentamente scivolando tra i ricordi insieme all’illusione di essere un paese bello come gli azzurri

Euro 2020 è finito da ormai quattro giorni e, dopo l’entusiasmo irrefrenabile scatenatosi domenica sera, comincia a far capolino la nostalgia di un evento probabilmente irripetibile nelle nostre vite. Rendiamocene conto: abbiamo vinto a Wembley in 6.000 contro 60.000 battendo l’Inghilterra, inanellando 34 partite consecutive senza sconfitte, giocando benissimo e iniziando il percorso con una disastrosa mancata qualificazione ai Mondiali… Sembra una favola!

Qui credevamo sin dall’inizio dell’avventura nel lavoro di Mancini, ma nemmeno il più ottimista poteva prefigurare uno scenario così perfetto. L’unico, forse, era lo stesso Mancio, che dai primi giorni della competizione ha scandito come un visionario il tempo che mancava per alzare la Coppa: sei partite, cinque, quattro…

È stato un Europeo indimenticabile. All’ebbrezza di alzare il trofeo in faccia davanti a chi cantava che l’avrebbe “portato a casa” da settimane, va aggiunta la simbiosi vissuta all’Olimpico nella fase a gironi. Ho avuto la fortuna di esserci e posso assicurare che quell’atmosfera l’ho vista raramente su un campo di calcio, nonostante le restrizioni e l’affluenza limitata. Erano vere “notti magiche” ed era impossibile non confidare in quel gruppo, con buona pace di chi affermava che non avesse incontrato alcun rivale di livello (ma quei critici, poi, che fine hanno fatto?).

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Insigne con la Coppa di Euro 2020 (Getty Images)

Il sogno azzurro e la lezione di Mancini

L’addio a un mese così bello, iniziato con le lacrime di paura per Eriksen e concluso con quelle di gioia per il trionfo azzurro, porta con sé anche un po’ di disillusione. Durante le gare di questa Nazionale ho avvertito davvero in tante persone la sensazione che cantava la Nannini 31 anni fa: “Dagli spogliatoi escono i ragazzi… e siamo noi”.

Era un po’ come se l’eleganza di Mancini, inappuntabile anche nel corso dei festeggiamenti come se fosse appena uscito dal barbiere, c’appartenesse. Ci sentivamo tutti belli come lui e forti come Vialli, un esempio di resilienza vera, non quella degli hashtag e dei tatuaggi. Quel commovente abbraccio dopo il rigore di Saka lo ricorderemo anche tra 50 anni.

Erano nostri il talento di Donnarumma, la forza senza età di Bonucci e Chiellini, l’abnegazione di Di Lorenzo, la dignità nella sfortuna di Spinazzola e la prontezza di Emerson, la testa di Jorginho, l’esplosività di Barella, la classe di Verratti, la tecnica di Insigne, la freschezza di Chiesa. E i sorrisi, la voglia di far bene di tutti gli altri, perché dietro questa vittoria c’è davvero il contributo di ognuno di loro.

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L’illusione di un’Italia unita grazie alla Nazionale

L’Italia intera si è fermata, soffrendo e gioendo all’unisono, come non le accadeva dal 2006. Si è riscoperta unita come il gruppo costruito da Mancini, nel quale juventini e partenopei, milanisti e interisti, romanisti e laziali si divertono perché giocano bene e giocano bene perché si divertono, passando tra una vittoria e l’altra dall’inno di Mameli a ‘Luca il Sole di Notte’ e le sue ‘purpette’ con invidiabile nonchalance. Magari fosse davvero così.

Più passano i giorni, purtroppo, e più ci rendiamo conto che era la solita illusione pallonara e nazionalpopolare. Stiamo tornando anche piuttosto rapidamente ad essere un paese diviso, polemico e pieno di contraddizioni. Il covid non ci ha reso migliori e la vittoria all’Europeo non cambierà nulla, ma la lezione di sport e soprattutto di vita impartita dai ragazzi di Mancini, un po’ d’eredità dovrebbe lasciarcela. Concedeteci almeno di sperarlo.

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