La Superlega è una realtà. Ora bisogna negoziare: non farlo, vuol dire ammazzare il calcio
Il mio primo approccio con la Superlega ebbe luogo oltre 20 anni fa a Scampia, quand’ero bambino. Nel campetto dove giocavo con i miei amici, capitava spesso che arrivassero “i grandi”, interrompevano le nostre partite e ci cacciavano. A nulla serviva sottolineare che mancassero appena due gol per stabilire il vincitore, che bastasse un po’ di pazienza.
Non c’era margine di trattativa: erano più grossi, più forti ed avevano un importante bacino d’utenza. Le loro partite finivano addirittura con una ventina di spettatori e diversi osservatori dai balconi, gli sky box di quella dimensione. Erano oggettivamente incontri appassionanti e loro bravissimi. Ma il senso di ingiustizia restava.
Ecco, la Super League messa su dalle big mi provoca le stesse sensazioni. Il suo avvento era inevitabile: è la naturale evoluzione del calcio moderno, il traguardo a cui siamo giunti dopo un largo cammino, nel quale i clienti hanno sostituito i tifosi e i soldi hanno rubato l’anima popolare al pallone. Ne siamo tutti estremamente consapevoli, ma faremo sempre un’enorme fatica ad accettarlo. Una competizione ad inviti con 15 intoccabili è troppo lontana dall’idea di sport con la quale siamo cresciuti, per quanto questi 15 siano ineluttabilmente il motore del calcio mondiale.
Quanto accaduto nelle ultime 48 ore è figlio di oltre un lustro di studi, trattative e incontri culminati a gennaio scorso, quando Florentino Perez apparve alla Continassa per incontrare Andrea Agnelli. I 12 club fondatori hanno analizzato tutto nei dettagli con un enorme pool di legali. Sanno che il pallone lo portano loro, con i loro campioni e i loro miliardi di spettatori. Sapevano che avrebbero avuto tutti contro.
Per l’appassionato di calcio è un trauma, un tradimento. Impossibile non comprendere le reazioni inorridite e il senso di smarrimento di queste ore. Ci attendono mesi di battaglie legali, di minacce e anche di insulti, come quelli dell’assemblea di Lega. L’unica certezza che ci giunge è che i 12 ‘ribelli’ resteranno fermi sulle loro posizioni.
La Superlega garantirà il quadruplo degli introiti rispetto alla Champions e offrirà un prodotto nuovo, più vicino alle esigenze dei giovanissimi, abituati dagli smartphone al tutto e subito. I suoi fondatori la considerano l’evoluzione della Champions, e hanno già deciso che erediterà per convenzione il suo palmarés.
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Superlega, la guerra è inutile: bisogna trattare
C’è un elemento, però, che non le permette di essere ancora indipendente: i campionati nazionali. Se nel primo, storico comunicato della Superlega è stato specificato che resteranno “il cuore delle competizioni tra club”, è perché tutte le squadre coinvolte sono consapevoli che i tifosi non accetterebbero il loro abbandono. Lo ha ribadito con fermezza lo stesso Florentino Perez. La partita, dunque, va giocata lì.
La Superlega è ormai un fatto, farle la guerra servirà solo a perdere tempo e lucidità. I loro 12 partecipanti incasseranno nel giro di un mese 230 milioni di euro a testa per migliorare le loro infrastrutture e i loro conti devastati (anche) dal covid.
I top-club, UEFA, FIFA e leghe nazionali, dovrebbero iniziare a negoziare quanto prima e smetterla di ringhiarsi sul muso. Se si è giunti a questa assurda situazione, ognuno porta un pezzo di colpa. Tutte le parti dipendono l’una dall’altra, quindi il margine di trattativa c’è. I 12 fondatori hanno già fatto sapere che il format della nuova Superlega è solo il primo approccio e che può evolversi in base a ciò che accadrà nei prossimi mesi.
Bisognerà tentare di allargare la platea di posti disponibili, lasciare valore il merito sportivo (o trovare una via di mezzo: a nessuno piace l’idea di 15 intoccabili) e attivare realmente il meccanismo di solidarietà, che promette, secondo la Superlega, di distribuire ogni anno diversi miliardi di euro in più rispetto alla Champions.
Sarà una trattativa difficile, ma non credo ci siano alternative. La spaccatura di cui si parla (e a cui non credo) porterebbe all’isolamento delle big in una bolla spettacolare quanto asettica, a dei campionati monchi, a Mondiali e Europei senza i loro migliori protagonisti. Per farla breve: alla morte del calcio.